Il fango digitale dei cybercriminali | L’intervento di Francesco Terlizzi, docente di cybersecurity alla Unimarconi e CEO di aCrm Net

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FONT RIPARTE L’ITALIA


La criminalità informatica si è affermata come una delle principali sfide per governi, imprese e individui.

Con migliaia di attacchi informatici registrati ogni giorno, le conseguenze di queste incursioni sono sempre più drammatiche e diffuse.

Le vittime di tali attacchi spaziano dai semplici cittadini fino a istituzioni nazionali, e gli effetti si manifestano in danni economici significativi, perdite di dati e gravi ripercussioni reputazionali.

La natura della criminalità informatica ha subito un’evoluzione profonda: i gruppi di cybercriminali sono ora più organizzati e professionali, spesso strutturati in vere e proprie reti internazionali.

Non si tratta più di semplici hacker o cracker, ma di veri e propri “team” che si avvalgono di tecnologie avanzate, come intelligenza artificiale e strumenti di anonimizzazione, per condurre attacchi complessi e su larga scala.

Questo rende la prevenzione della cybercriminalità non solo difficile, ma anche cruciale, in un’epoca in cui le informazioni personali e aziendali sono quasi esclusivamente digitalizzate e accessibili online.

Le minacce informatiche sono diventate una realtà quotidiana, e con esse la figura del cybercriminale.

Ma chi sono davvero queste persone che si nascondono dietro schermi e pseudonimi, orchestrando attacchi che destabilizzano aziende, governi e individui?

Per comprendere meglio questa figura, viene da chiedersi: i cybercriminali sono uomini di fango o uomini del fango?

Il cybercriminale ha un comportamento che va oltre il semplice interesse per il profitto illecito: implica una mancanza di scrupoli e rispetto per la sicurezza, la privacy e i diritti altrui.

I cybercriminali sfruttano vulnerabilità e debolezze tecnologiche e umane, spesso senza riguardo per le conseguenze, colpendo persone e organizzazioni indiscriminatamente.

La mancanza di scrupoli li porta a sfruttare vulnerabilità nei sistemi e a violare la privacy delle persone e delle organizzazioni per vantaggi personali, senza considerare il danno arrecato.

Questa assenza di morale è spesso amplificata dalla falsa percezione di anonimato online, che riduce la percezione del crimine come un atto che coinvolge reali vittime.

Questa “sporcizia” morale si manifesta non solo nella criminalità finanziaria, ma anche in danni emotivi e sociali, violazioni di dati sensibili e abusi di fiducia, sottolineando una condotta eticamente e socialmente corrosiva, tossica.

Ecco che definire i cybercriminali come “uomini di fango” richiama l’idea della sporcizia morale.

In questo senso, i cybercriminali potrebbero essere paragonati a coloro che, in altri campi, si macchiano di atti moralmente discutibili per interesse personale, ricorrendo a metodi subdoli e pericolosi.

Dal furto di dati sensibili alla distribuzione di ransomware, l’obiettivo principale è il profitto, e la moralità diventa solo un ostacolo.

Rappresentano il “fango” la parte più torbida e corrotta della società digitale.

L’accessibilità ai dati digitali parte dalla perlustrazione (Reconnaissance per gli esperti di settore): questa fase ormai è facilmente attuabile.

Non serve avere profonde conoscenze di IT, di reti di protocolli.

Ci sono servizi fruibili semplicemente inserendo un url per ottenere grazie a motori di analisi informazioni preziose sul target.

Pertanto come spesso si sente dire che l’uso di smartphone possa essere deleterio per gli adolescenti o i pre adolescenti , avendo di fatto un effetto dopanimergico sulla loro psiche, anche questi servizi o strumenti digitali che rappresentano per la dopaminergico mente criminale un’arma , forniscono iniezioni di dopamina spingendo lo stesso ad eccitarsi di fronte all’acquisizione progressiva del potere di controllo sugli altri, un desiderio che si autoalimenta in modo ricorsivo, sfruttando questi strumenti di penetrazione.

Questo mare di dopamina in cui si immerge il cybercriminale ogni volta che acquisisce i segreti altrui si innalza ulteriormente avendo la percezione chiara di muoversi nell’anonimato.

L’anonimato riduce il senso di responsabilità e porta il criminale verso la totale assenza di empatia per le vittime.

Le radici della cybercriminalità spesso affondano in diversi fattori sociali, economici e psicologici: il termine “uomini del fango” può suggerire un altro significato, il legame tra questi criminali e l’ambiente che li ha creati.

In un certo senso, la crescita dei cybercriminali riflette le lacune della società digitale.

Molti cybercriminali sono nati e cresciuti in un contesto in cui le conoscenze informatiche sono facilmente accessibili, ma senza una guida etica adeguata.

La cultura digitale, l’anonimato del web e la possibilità di raggiungere rapidamente guadagni significativi hanno creato terreno fertile per queste figure.

È pur vero che l’anonimato, la tanto anelata invisibilità guantata dal desiderio di sentirsi essere superiore in grado di dopaminergico controllare il prossimo, di indirizzare i consensi, di costruire apparenze riscontrabili nelle frasi maldestre di alcuni cyber interpreti, per chi mastica informatica, non è semplice da raggiungere.

Il cyber criminale, l’illuminato rappresentante della sporcizia morale, lascia sempre una traccia che apre le porte all’indagine.

S. Agostino diceva “Cerchiamo ciò che già è stato trovato.

È perché è nascosto che si deve cercare ciò che deve essere trovato”.

I cybercriminali, pur nella loro intenzione di non lasciare tracce, inevitabilmente ne disseminano.

Tracce digitali come indirizzi IP, log di rete, pattern comportamentali o file temporanei forniscono indizi importanti.

Anche le tracce spesso camuffate o cancellate, ricercate con attenzione, permettono ai “ricercatori” ovvero agli “investigatori” di stabilire con esattezza l’identità e le intenzioni del cybercriminale.

Essere “uomini del fango” significa, quindi, essere il prodotto di un ambiente che non offre sufficienti alternative o barriere al crimine informatico.

Questa prospettiva sottolinea il ruolo delle istituzioni e delle aziende nel creare un ambiente digitale più sicuro e meno tollerante verso comportamenti dannosi.

Di fronte a questa minaccia, è essenziale adottare misure di sicurezza robuste.

Gli utenti devono essere consapevoli dei pericoli e ricevere una formazione adeguata su come proteggere i propri dati.

L’educazione alla sicurezza informatica o semplicemente digitale, deve diventare una priorità non solo per i governi, ma anche per le aziende e le istituzioni educative a tutti i livelli.

Solo aumentando la consapevolezza e la preparazione dei cittadini si può ridurre o mitigare il rischio di attacchi informatici.

Riflettendo sull’educazione digitale identifichiamo una linea sottile tra vittime e cybercriminali: i cybercriminali possono iniziare come vittime del sistema, attratti dalla promessa di una facile via d’uscita da situazioni difficili.

La pressione sociale, le disuguaglianze economiche e la difficoltà di trovare un lavoro stabile nel settore IT spingono alcune persone a usare le loro competenze in modo illegale.

Essi diventano così uomini di fango, ma allo stesso tempo sono uomini del fango, plasmati dall’ambiente in cui si sono trovati.

Questo contesto spiega come certe pressioni sociali e personali possano spingere alcuni verso il cybercrimine, trasformando talenti potenzialmente positivi in strumenti di danno.

L’educazione digitale, sin dalle scuole primarie, può avere un effetto balsamico per le ferite prodotte dalle disuguaglianze sociali: comprendere i rischi, le conseguenze legali e le implicazioni etiche associate all’uso delle competenze digitali è essenziale per orientare gli individui verso un uso responsabile delle loro conoscenze.

Un’educazione digitale solida aiuta a sviluppare una mentalità etica, a riconoscere le tentazioni di attività illecite e a valorizzare il proprio potenziale per opportunità professionali legittime.

Inoltre, incoraggia la crescita in comunità digitali dove il talento IT è sostenuto e apprezzato.

A questo punto la domanda se i cybercriminali siano “uomini di fango” o “uomini del fango” rimane aperta, dipendendo dal punto di vista da cui li osserviamo.

Da una parte, essi rappresentano una minaccia morale, individui che scelgono consapevolmente di violare le regole.

Dall’altra, sono spesso il prodotto di un contesto che li ha plasmati e influenzati, mettendo in luce la necessità di educazione e prevenzione, oltre che di misure punitive.

La cultura e le influenze sociali, quindi, giocano un ruolo significativo nell’indirizzare o deviare una persona dal cybercrimine.

Comprendere questa distinzione ci permette di affrontare in modo più efficace il problema del crimine informatico, riconoscendo la complessità della figura del cybercriminale e sviluppando strategie più ampie che includano educazione, consapevolezza e prevenzione.

Una grande responsabilità di quanto stiamo assistendo in questi giorni in contesti pubblici e finanziari, è da attribuire nell’assenza di educazione digitale.

L’accessibilità ai dati non opportunamente sorvegliata, analizzata, priva di un controllo rigoroso, incentiva comportamenti legati alla cybercriminalità.

Quando dati sensibili e informazioni critiche sono facilmente accessibili, persone con competenze tecnologiche possono essere tentate di sfruttare questa mancanza di protezione per vantaggi economici, personali o per curiosità.

Senza misure di sicurezza, come autenticazione forte con l’intersezione di molteplici fattori biometrici, restrizioni d’accesso, monitoraggio costante ed analisi comportamentale, la tentazione di utilizzare illegalmente tali dati può crescere, aumentando il rischio di crimini informatici.

Eppure in Italia ci sono intelligenze che hanno sviluppato tecnologie uniche nel panorama informatico mondiale sull’attribuzione di più fattori biometrici al dato, rendendolo firmato ed accessibile solo dalle identità biometricamente riconosciute.

Le soluzioni ci sono, basta coinvolgere le persone che stanno dalla parte giusta, quelle che hanno etica e che sono capaci di costruire fence concentriche capaci di intrappolare il malintenzionato.

Ricordiamoci che l’hacker non è un creativo, non è intelligente, ma è un tizio che approfitta delle porte lasciate inavvertitamente aperte, da amministratori di rete e di applicazioni, un seminatore di sfiducia e di incertezze, un produttore di negatività è il rifiuto della società digitale che va trattato come un file da cestinare inviandolo però in un permanent eraser.